Sul n. 7-8 (luglio-agosto 2013) di CLE, la rivista di Cooperativa Letteraria riservata ai soci, compare un mio contributo intitolato "Potrei raccontarvi" in cui rievoco certe esperienze letterarie della mia infanzia, spero in modo non troppo melenso. Dal mese prossimo la rivista sarà scaricabile da tutti dal sito di Cooperativa Letteraria. Io vi anticipo la parte centrale del pezzo.
Da bambino, come tutti, amavo l’avventura, quella iperbolica
e fracassona dei romanzi del ciclo di “Tarzan”. Quando la maestra ci portava a
rifornirci di libri nella piccola biblioteca della scuola, io lì finivo, tra i
romanzi di Burroughs, che avevano il vantaggio, ai miei occhi, di non perdere
tempo dietro a premesse troppo lunghe, come invece accadeva con Verne (quelle
premesse interminabili avrei imparato, pochi anni più tardi, ad amarle più
delle stesse avventure). I dialoghi erano ridotti all’osso, ma d’altra parte
come si può mettere in bocca a degli scimmioni (o “antropoidi”) un eloquio
umano, o meglio, come tradurre in linguaggio umano i loro versi? Burroughs
sapeva farlo, certo, ma appunto nessuno pretendeva dai suoi gorilla uno stile
da commedia di carattere. C’erano poi azione, colpi di scena, lunghe
descrizioni: e cominciavo a capire che il sale, o meglio il sangue
dell’avventura, sta nelle descrizioni che intasano le pagine, distraggono il
lettore impaziente, lo esasperano, ne sfiniscono le difese, e intanto lavorano
sulla sua percezione del mondo, sulla profondità della sua visione, oltre che
sul suo lessico, e gli restano per così dire attaccate agli occhi anche quando
leva lo sguardo dalle pagine e guarda attorno a sé.
Da quelle esperienze furiose di lettore (rimanevo in classe a
leggere, sprezzante, mentre i miei compagni nell’intervallo si precipitavano
fuori a giocare nel cortile, a rincorrersi, farsi boccacce, a seviziare
maggiolini) nacque la materia del mio primo romanzo. Lo scrissi a otto-nove
anni o giù di lì, su un quadernetto, con tanto di esploratore, foresta, animali
feroci e soprattutto un orripilante ippopotamo meccanico che si aggirava
incongruamente nella jungla. Il racconto impressionò, ricevetti complimenti e
qualche suggerimento benevolo (e forse preoccupato) a proposito dello
spaventoso e frettoloso bagno di sangue con cui, ormai sazio, avevo concluso il
tutto per passare ad altro. Fatto sta: dopo qualche mese venne pubblicato
integralmente, efferatezze comprese, a puntate e in ultima pagina come un
romanzo d’appendice, sulla rivista quindicinale (accidenti, come si
intitolava?) dell’ordine cui apparteneva la zia suora, tra articoli su taglio,
cucito e vetrineria, pellegrinaggi, decessi di consorelle. Anche lì,
complimenti e imbarazzi: i primi ovviamente mi lusingarono fino a rendermi
insopportabile; dei secondi nemmeno mi accorsi.
La maestra, in classe, amava leggerci romanzi di genere larmoyant. Ricordo certi polpettoni di
Malot o Salvator Gotta, i “piccoli alpini”, i “piccoli vetrai”, i “senza
famiglia”. Alcuni di noi, tra cui io, pur turbati dall’interminabile serie di
sciagure e in attesa irrequieta di un lieto fine purchessia, in privato ostentavano
indifferenza e si davano a dileggi.
Arrivavamo a inumidirci gli occhi di saliva, o a stropicciarceli, per simulare
commozione, o per prendere in giro chi davvero piangeva. Ricordo una compagna
di classe che, colta da emozione intrattenibile dinanzi alle traversie di
qualche piccolo eroe, prese a piangere, andò a casa per pranzo piangendo, e
piangendo tornò il pomeriggio, accompagnata dalla madre sconvolta, che non
capiva perché la figlia fosse ridotta a un cencio fradicio. E ricordo che
ammirai la cocciutaggine di quell’emozione, e invidiai quelle lacrime,
sospettando che io e i miei amici ci perdessimo qualcosa, qualcosa di grande,
ancora più grande dei brividi che lasciavo correre su di me quando per ore
leggevo Verne. Senza saperlo, mi trovavo dinanzi a una variante imprevista del
senso del sublime.
http://cooperativaletteraria.it/index.php/component/content/article/80-cooperativa-letteraria/81-come-associarsi.html
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