Massimo Barbiero, percussionista, leader storico degli Odwalla e tra i
membri fondatori degli Enten Eller, è da anni l’animatore di progetti musicali
che coinvolgono musicisti non solo dell’area jazz e non solo italiani. Una
delle sue creature più longeve è l’Open Jazz Festival che si tiene a Ivrea e
dintorni ogni anno verso marzo: quest’anno, il 21 marzo, alle 21, presso il
Teatro Giacosa di Ivrea, sarà presentato il CD “Gabbia”, un lavoro frutto della
sintonia tra lo stesso Barbiero e Marta Raviglia, sorprendente e intensa cantante
a suo agio in ogni tipo di sperimentazione. Ho avuto il piacere di dare un
piccolo contributo alla creazione del CD, in uscita proprio in quei giorni per
la Splasc(h) Records, dapprima selezionando una serie di testi letterari
incentrati sul tema della “gabbia”, dai quali Marta e Massimo hanno liberamente
attinto per le loro improvvisazioni, e scrivendo infine le note di copertina,
che ripropongo qui di seguito.
“Dove entrai io qua dentro, o
come e quando?”
di Claudio Morandini
La gabbia – il tema della
gabbia, o meglio ancora la metafora della gabbia – attraversa secoli di
letteratura, adattandosi a concetti assai diversi. Spesso fa riferimento ai
vincoli d’amore, e allora diventa volentieri allegoria drammatica, si
infittisce e ispessisce fino a diventare cella di prigione, doloroso ricetto (“Gabbia
senz’uscio e carcer senza uscita,/mar senza riva e selva senza varco,/labirinto
ingannevole d’errore” declama Giovambattista Marino, in endecasillabi sonanti
che Marta Raviglia e Massimo Barbiero rendono alienanti, manicomiali). Amore è davvero
guardiano severo, quando non spietato: hai voglia a sperare nella libertà, a
sognare di volar via verso il cielo, o verso nuovi flirt meno teatrali. Il suo
palazzo – e tuo carcere – è un’uccelliera priva di porte e finestre, è anzi un
labirinto in cui ci si può solo perdere. Certo, si può sempre sospettare che
tutta questa crudeltà sia parodistica, e che l’amore carnefice cantato dai
poeti sia una burla tirata per le lunghe, un gioco di ruolo (come suggerisce
“For de la bella cayba” di anonimo bolognese). Ma spesso la spietatezza è reale,
dilaniante, e sincero il dramma della reclusione.
Sentite in “Qual vaga Filomela” (da Tullia d'Aragona) come la voce di
Marta Raviglia si aggira inquieta negli spazi ristretti di queste gabbie che il
tocco di Massimo Barbiero evoca con tonfi, sgocciolii, echi, scuotimenti
metallici, bombiti. La voce esplora attenta i limiti della prigione, e per
farlo meglio si moltiplica, si fa coro. Non è la voce seduttrice di Circe,
Morgana, Armida, o di tutte le donne fatali su cui una lunga tradizione
misogina ha fantasmato mentre erigono piranesiane architetture di inganni per
distruggere il maschio. È invece la voce di tutte le donne che la letteratura per
secoli ha descritto prigioniere, legate, immolate, abbandonate, facendone un
emblema non solo della condizione femminile, ma della condizione umana in
generale.
Ci sono prigioni in cui ci avvoltoliamo per conto nostro, celle
rassicuranti e insieme soffocanti che ci costruiamo attorno pezzo per pezzo,
tutte nostre. Ma la gabbia può avere anche un significato morale più generale, addirittura
politico. Nei testi scelti per questo disco tale significato resta ben nascosto
– fa capolino nelle prose moraleggianti, come nel “Rovistrice” di Leonardo da
Vinci, o nella celebre terza satira di Ludovico Ariosto (“Non si adatta una
sella”, con quel che segue). È la gabbia della condizione dei non privilegiati,
dei sottomessi, dei servi. Ci si nasce, in quelle gabbie, si vive, ci si muore
senza aver mai visto l’esterno, senza nemmeno avere mai imparato a immaginarlo.
Gabbie ben più avviluppanti di quelle d’amore, che il tempo può crepare, quelle
legate alla condizione sociale degli uomini non sempre si presentano come luoghi
di detenzione: piccoli oggetti inutili le arredano, finte finestre si aprono su
paesaggi di carta, schermi televisivi distolgono l’attenzione e fan passare la
voglia di evadere. Pare bello starci reclusi, a chi non ha la forza di
immaginare un oltre, nuovi spazi aperti in cui far combutta e ordire rivolte o
almeno essere appieno se stessi.
In alcuni brani la voce, enunciato il testo di partenza, ascende, evade dalle
parole di senso compiuto, si sbroglia dai legacci semantici, scivola via
leggera, priva della gravezza del significato. Tornerà poi a quelle parole, ma
per pronunciarle in modo diverso: saranno frantumate, borbottate, respirate
come cose nuove. In altri brani la voce già da subito si libra lontana dalle
parole, svolazza al di fuori dell’uccelliera di cui qualcuno ha dimenticato
aperto l’usciolo.
Attenti, però: all’esterno, nei territori sconfinati che si aprono al di fuori
delle sbarre divelte o forzate, si aggirano ronde di scherani pronti a
riportarti dentro al suono di una marcetta grottesca e minacciosa. Li sentiamo
sfilare in “Invano il passo”, da Ariosto (ma dei versi ariosteschi è rimasto,
minaccioso, solo il titolo).
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